Sono trascorsi cinque anni e un mese da quel marzo 2020, quando le strade d’Italia si svuotarono improvvisamente, e il tempo sembrava rallentare in una sospensione irreale. Chiusi nelle nostre case, guardavamo il mondo dai balconi e dalle finestre, aggrappati a un presente incerto. Ricordo la sensazione surreale di quei giorni: silenzio assoluto, rotto solo dal suono intermittente delle sirene delle ambulanze, che raccontavano una tragedia invisibile eppure così reale.
Nel passato, durante le grandi epidemie che segnarono la storia dell’umanità, la morte era visibile e tangibile. Le persone morivano in casa, nei villaggi, nelle piazze. Si assisteva alla morte dei propri cari, se ne accompagnava il trapasso con rituali condivisi, elaborando un lutto collettivo che dava senso alla perdita. Oggi, invece, la morte è diventata qualcosa di distante e medicalizzato, un numero nei bollettini quotidiani, una statistica lontana dalla nostra carne e dal nostro cuore. Abbiamo perso il contatto con la dimensione fisica e reale della morte.
Indice
I morti invisibili e il lutto negato
Durante la pandemia di Covid-19, i morti sono diventati invisibili. Sono scomparsi dentro ospedali blindati, senza l’abbraccio finale dei familiari, senza commiato né rituale. I sopravvissuti si sono ritrovati improvvisamente orfani, vedovi, senza aver visto, senza aver toccato, senza aver potuto salutare. È una ferita aperta che, forse, non abbiamo ancora saputo riconoscere e sanare pienamente. Non è un caso che, oggi, parliamo spesso di disagio, solitudine, malessere. Ma siamo certi che tutto questo derivi esclusivamente dall’isolamento del lockdown? O forse questo senso di vuoto nasce proprio dal non aver saputo elaborare insieme la perdita?
Abbiamo celebrato giustamente medici e infermieri, veri eroi moderni, ma abbiamo dimenticato troppo presto quelle migliaia di vite silenziose che ci hanno lasciato senza che potessimo accompagnarle verso l’ultimo viaggio. È una rimozione collettiva, dolorosa e inaccettabile, che ci rende incapaci di elaborare il lutto e di fare pace con la nostra mortalità.
La Geografia dell’Essere e il tabù della morte
La filosofia che sottende la Geografia dell’Essere ci ricorda che siamo un insieme di corpi profondamente interconnessi: il corpo fisico, quello emozionale, quello mentale e quello spirituale. Quando neghiamo o ignoriamo la morte, inevitabilmente frammentiamo la nostra esperienza umana, perché la morte non riguarda soltanto il corpo fisico, ma attraversa e influenza ciascuna delle nostre dimensioni interiori.
Luciano Manicardi ci aiuta a comprendere questa visione integrata con il termine ebraico basar (בָּשָׂר), che letteralmente significa “carne”, ma include l’idea stessa di spirito e soffio vitale:
«Il termine ebraico che designa il corpo, basar (alla lettera: “carne”, più ampiamente “corpo”), indica l’uomo in quanto tale, e include in sé l’idea di spirito, di soffio: è interessante notare che è l’idea di corpo che abbraccia in sé quella di spirito, e non il contrario! Prova ne sia che basar non è utilizzato per indicare un cadavere.» (Luciano Manicardi)
Accogliere il corpo come basar significa allora superare la visione frammentaria che separa carne e spirito, e riconoscere che la consapevolezza della morte è parte integrante dell’armonia e della completezza della nostra esistenza.
Accogliere la morte come cura di sé e della società
Parlare apertamente della morte significa prenderci cura di noi stessi e della comunità. Non si tratta di celebrare la fine, bensì di riconoscere che vita e morte sono inseparabili, parti dello stesso ciclo naturale. Ritrovare questo dialogo con la morte ci aiuta a riconnetterci alla nostra umanità più autentica, permettendo a tutti i nostri corpi – fisico, emozionale, mentale e spirituale – di armonizzarsi in profondità.
Potremmo iniziare a rompere il silenzio creando spazi di commemorazione collettiva, momenti di silenzio condiviso, rituali personali e comunitari che ci guidino nella rielaborazione del lutto. Non è un fallimento morire, come non lo è invecchiare o vivere periodi di tristezza e confusione. Al contrario, la vera sconfitta è vivere una vita inconsapevole, superficiale, lontana dalla verità profonda del nostro essere.
Cinque anni e un mese dopo quel primo lockdown, forse è finalmente giunto il tempo di guardare la morte negli occhi. Non per temerla o per sfuggirla, ma per accoglierla come compagna inevitabile e preziosa della nostra esistenza.
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