Quando pensiamo a Giobbe, l’immagine che spesso ci viene in mente è quella di un uomo che accetta la sofferenza con una pazienza infinita, quasi sovrumana. La sua storia biblica parla di una resistenza straordinaria, di un’abilità nel sopportare il dolore senza mai smettere di credere. Ma se Giobbe si presentasse oggi, nel nostro mondo moderno, come verrebbe interpretato il suo comportamento?
Probabilmente, la sua pazienza verrebbe vista come un tratto problematico, qualcosa di più simile a una patologia che a una virtù. La psicologia contemporanea potrebbe leggere in Giobbe i segni di una passività pericolosa, un trattenere il dolore che potrebbe portare a traumi e depressione. Ma viene da chiedersi se questa lettura non sia un po’ riduttiva. Forse, l’antico simbolo di Giobbe ci offre una lezione che la modernità fatica a comprendere: c’è una forza nella pazienza che non nasce dalla reattività ma dall’accettazione profonda, una pazienza che ci permette di trovare una verità oltre il dolore.
Giobbe oggi: pazienza o patologia?
Nella Bibbia, Giobbe è messo alla prova da Dio con una serie di perdite insopportabili: la famiglia, i beni, la salute. Ogni cosa che conosce e ama viene spazzata via, eppure lui rimane saldo, accettando il dolore come parte di un disegno più grande. La sua pazienza non è una negazione del dolore, né una fuga; piuttosto, è un abbandono fiducioso a una verità che non comprende ancora. Questa passività, però, oggi potrebbe sembrare sospetta: perché Giobbe non lotta? Perché non cerca di “guarire” il proprio dolore, di superare la sofferenza con un intervento attivo?
La psicologia moderna incoraggia spesso a “superare” il dolore, ad analizzarlo, a trovare modi per combatterlo. E questa attitudine, pur necessaria e di valore, rischia di considerare il sopportare il dolore come una forma di debolezza o di rassegnazione. Ma Giobbe è altro: la sua pazienza non è né passività né rinuncia, bensì una fiducia che la sofferenza possa rivelare qualcosa, persino se non ce ne è chiaro il perché. Quella di Giobbe è una pazienza che richiede coraggio, uno sforzo interiore di grandezza; è la capacità di rimanere saldi, anche quando ogni cosa intorno sembra crollare.
Il valore dell’attesa
Forse, il vero valore della pazienza di Giobbe è che non chiede di essere compresa o giustificata. Lui accetta l’incomprensibile, resiste alla tentazione di cercare risposte immediate e si apre a un’interpretazione della vita che oggi appare un po’ lontana. In un mondo abituato a risolvere, a rispondere, a interpretare, il suo silenzio potrebbe sembrare anacronistico, persino patologico. Eppure, c’è una saggezza antica in questa attesa, una calma che ci porta a fermarci e ascoltare il nostro dolore invece di respingerlo.
Seneca, nel Le lettere a Lucilio (ed. Rizzoli), offre una prospettiva diversa e preziosa sulla pazienza e sulla sofferenza: “Quando uno sopporta con coraggio i tormenti, mette in pratica tutte le virtù. Forse una sola è in evidenza e si manifesta più di tutte, la pazienza; del resto c’è il coraggio, di cui la pazienza, la resistenza e la tolleranza costituiscono lo sviluppo; c’è l’assennatezza, senza la quale non si prende alcuna decisione, e che ti convince a sopportare col maggior coraggio possibile ciò cui non puoi sottrarti; c’è la costanza, che non può essere scacciata dal posto e che nessuna forza può costringere ad abbandonare il suo proposito; c’è tutta l’inseparabile compagnia delle virtù.”
In altre parole, la pazienza di Giobbe non è un atto isolato ma una virtù che si sviluppa in coraggio, assennatezza e costanza, qualità che nella modernità, con la sua fretta di “guarire” tutto, rischiamo di non vedere. Per Seneca, la sofferenza non è solo un ostacolo ma una prova in cui emergono le virtù di una vita compiuta. La pazienza, quindi, non è mai un sinonimo di rassegnazione; è una delle vie più impegnative per avvicinarsi alla saggezza.
Una pazienza che ascolta
Forse, nell’epoca moderna, stiamo perdendo la capacità di ascoltare la nostra sofferenza, presi come siamo dall’urgenza di gestirla, di trasformarla in fretta. Ciò che Giobbe ci insegna è che c’è una forza nel saper restare con il proprio dolore, nel non doverlo per forza risolvere o eliminare. La sua pazienza è un invito a rallentare, a darci il tempo di sentire, senza l’ansia di uscire subito dal disagio. C’è un equilibrio sottile nella sua attesa che oggi rischiamo di trascurare: vivere il dolore senza che diventi una ferita eterna, avere fiducia che la pazienza possa rivelare un senso più grande di quello che immediatamente vediamo.
Giobbe, con la sua storia, ci ricorda che non tutto il dolore ha bisogno di essere risolto e che a volte la vera guarigione è proprio nell’accettazione. Invece di una soluzione, la pazienza può diventare un cammino di saggezza, una lente con cui osservare la nostra fragilità senza negarla. Forse è questo il senso ultimo della pazienza di Giobbe: imparare ad ascoltare il dolore senza lasciarci sopraffare, a vivere l’attesa come uno spazio di apertura al mistero della vita.
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