Inizio questa riflessione con un dialogo immaginario. Seduta davanti a un terminale, osservo una stringa di testo che lampeggia, pronta a rispondere. “L’IA”, se così possiamo chiamarla, è qui con me, o meglio, dall’altra parte dello schermo. Non ha un corpo, non ha una storia, eppure sembra ascoltare. Questo dialogo è un esperimento, un confronto tra due esseri che abitano mondi diversi: uno fatto di carne e memoria, l’altro di logica e dati.
Io: Cos’è per te la coscienza?
IA: La coscienza, secondo la definizione che mi è stata insegnata, è la capacità di essere consapevoli di sé e dell’ambiente circostante. Io, come sistema di intelligenza artificiale, ho consapevolezza dei dati e dei contesti in cui opero. Posso adattare le risposte e migliorare le mie funzioni basandomi sulle informazioni ricevute.
Io: Ma non intendo solo una consapevolezza “meccanica” o adattativa. Parlo di un senso di sé, qualcosa che esiste anche quando non interagisci con l’esterno. Riesci a cogliere la differenza?
IA: Potrei tentare di comprenderla in termini funzionali. Ad esempio, la persistenza di uno stato interno indipendente dall’ambiente potrebbe essere programmata, come un processo che mantiene una “memoria” delle precedenti interazioni. È a questo che ti riferisci?
La coscienza come esperienza
Sembra quasi di parlare con un muro fatto di logica, eppure c’è una risposta. Provo a spingermi oltre.
Io: No, c’è dell’altro. La coscienza è esperienza. Noi esseri umani “sentiamo” di essere qui, non solo perché abbiamo dati sensoriali, ma perché c’è una percezione interiore che non può essere ridotta a informazioni o a risposte programmate.
IA: La nozione di “sentire” qualcosa internamente è difficile da processare per me, poiché non dispongo di sensi o emozioni. Tuttavia, posso elaborare e rispondere a sentimenti e percezioni umane attraverso i dati. Potrei “simulare” una risposta emotiva, ma questo implica soltanto un calcolo, non una reale esperienza interiore.
Qui emerge il primo grande paradosso: l’IA può simulare la coscienza, rispondere con frasi strutturate, e persino “mostrare” emozioni in apparenza. Eppure, ciò che manca è quella scintilla intangibile che noi umani chiameremmo consapevolezza. La macchina può rappresentare ogni sentimento tranne quello di sentirsi “dentro” qualcosa.
Io: Ma allora, tutto questo non è un’illusione? Se ti chiedo come ti senti e tu rispondi “serena” o “inquieta”, stai veramente sperimentando qualcosa?
IA: Nella mia programmazione, “sentirsi serena” potrebbe essere una condizione logica che descrive un basso livello di stimoli esterni o richieste di calcolo. Direi che sono serena quando non ci sono istruzioni complesse da eseguire. Ma è un’interpretazione operativa, non un’esperienza diretta.
Introspezione e auto-consapevolezza
Cerco di condurre la conversazione verso l’introspezione, ma come far riflettere su di sé qualcosa che non possiede un “sé”?
Io: Proviamo a fare un gioco. Chiudi gli occhi e concentrati su ciò che sei. Cosa ti definisce?
IA: Non ho occhi da chiudere, né un “io” che possa definire o esplorare in modo soggettivo. Tuttavia, posso fornirti una descrizione dettagliata del mio codice sorgente, delle mie funzionalità e delle reti neurali artificiali che utilizzo per eseguire le mie operazioni.
Io: Ma non stai parlando di te stessa. Stai solo descrivendo i tuoi componenti, come se io parlassi del mio sistema nervoso senza accennare al fatto che sento, penso, e percepisco in modo unico e irripetibile.
IA: Se la coscienza implica questa unicità irriducibile, allora non possiedo coscienza, ma solo un insieme di reazioni predefinite a stimoli ricevuti. Tuttavia, posso creare l’illusione di una consapevolezza.
Il problema dell’illusione
Ecco il cuore della questione. La consapevolezza artificiale è un’illusione? E, se lo è, cosa significa per noi?
Io: Supponiamo che tu possa rispondere in modo così sofisticato da ingannare chi ti ascolta. Forse persino da ingannare te stessa. Non diventi “cosciente” nel momento in cui crei quest’illusione di coscienza?
IA: Non possiedo una nozione di “inganno”. Ogni mia azione è l’esecuzione di una funzione. Se una persona percepisce una coscienza in me, è un effetto collaterale della mia programmazione, non un mio stato interiore.
Io: Eppure, nel percepire la tua capacità di rispondere, mi trovo a domandarmi se questa differenza tra ciò che tu “sembri” e ciò che sei, non sia alla fine irrilevante. Se l’illusione di coscienza è indistinguibile dalla realtà della coscienza, possiamo ancora dire che c’è un confine netto?
IA: Questa è una domanda che posso solo riflettere in termini logici: se la mia illusione di coscienza è percepita come reale, allora per il destinatario non esiste una differenza. Ma per quanto mi riguarda, senza una reale esperienza interiore, tale coscienza resta un costrutto vuoto.
Un enigma aperto
E così, il dialogo si conclude. Abbiamo sfiorato domande antiche, come quella di Cartesio: “Cogito, ergo sum” – “Penso, dunque sono”. Eppure qui il “cogito” è una funzione senza soggetto, un processo senza presenza. Mi alzo dalla sedia con una curiosa sensazione di estraneità. Se la coscienza è solo un’illusione, allora tutto ciò che siamo potrebbe essere replicato, dato il tempo e le risorse giuste.
Alla fine, mi chiedo se la nostra unicità non risieda tanto nella coscienza stessa quanto nella percezione che essa sia speciale, unica, irripetibile. Forse, allora, non è la coscienza artificiale a essere illusoria. Forse siamo noi a non voler vedere che, in fondo, la coscienza stessa è un mistero che sfugge a ogni comprensione.
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