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L’atto che scioglie la paura del cambiamento

Abbiamo paura quando il terreno sotto i piedi smette di restituire la stessa risposta di sempre, quando l’attrito consueto ha una resistenza diversa e il passo sprofonda in un suolo che non conosciamo; è un’esperienza che investe il corpo prima ancora dei pensieri.
Quante volte ci si ritrova a rimandare una scelta, a prolungare una fase per tentare di non finirla mai, a difendere una quiete che ormai è solo morbosa: la paura diventa una cintura stretta intorno al presente, così che tutto ciò che potrebbe accadere viene messo a distanza, come se l’avvicinarsi delle possibilità comportasse un pericolo intrinseco, e non semplicemente una variazione di prospettiva. Il cambiamento assume il volto della minaccia, non per qualcosa che contiene in sé, bensì per l’indeterminatezza che lo precede: se tutto resta indistinto, l’immaginazione riempie i contorni con l’ombra più fitta, perché l’ignoto, non avendo ancora forma, accoglie ogni proiezione.

La dinamica è comune e quasi quotidiana per molti: al lavoro, quando un processo deve essere ripensato; in famiglia, quando un equilibrio consolidato mostra le prime crepe; nella relazione con se stessi, quando il desiderio affiora ma resta senza una direzione precisa e allora stanca invece di generare forza. La paura, in questi casi, custodisce ciò che c’è stato fino a ora e chiede tempo per l’assimilazione del nuovo; assolve una funzione di prudenza, perfino di rispetto, perché non sempre siamo pronti a reggere una mutazione nella stessa misura in cui sappiamo intravedere la sua necessità.
Eppure, se questa postura si prolunga oltre la soglia dell’integrazione, se diventa un modo di abitare il tempo, accade che l’indeterminatezza si trasformi in inerzia e l’inerzia, a sua volta, in paralisi: non si sceglie mai, non si cammina mai, non si sbaglia mai, ma neppure si vive pienamente.
La paura smette di proteggere e comincia a sottrarre.

La condizione immobile: si sedes non is

L’adagio ermetico dice: si sedes non is; se siedi, non vai.
Può sembrare una tautologia, un gioco linguistico, e tuttavia illumina con precisione lo stato di sospensione in cui spesso ci si trova quando il cambiamento appare necessario ma il passo non parte: si rimane seduti di fronte a un crocevia e, a furia di contemplare alternative equivalenti, nessuna strada viene davvero scelta. Da fuori tutto sembra calmo, lo scenario non cambia, le giornate scorrono uguali; dentro, però, si accumula un logorio sottile, perché l’energia impegnata nel trattenersi, nel mantenere l’apparenza dell’immobilità, alla lunga sfibra. Se tutte le strade vanno bene, nessuna vale abbastanza da essere imboccata; se ogni possibilità conserva il suo diritto a esistere, nessuna riceve il dono della priorità. È qui che la paura prolifera sottilmente: nell’indifferenza delle direzioni, nella dispersione delle intenzioni.
Questa condizione immobile, che non è quiete ma frizione silenziosa, si riconosce da segni minimi: un’agenda che si riempie di incombenze senza una trama che le tenga insieme; un linguaggio che si fa generico per evitare impegni precisi; un pensiero che ripete le stesse domande cercando sollievo nella circolarità.
Non c’è sollievo nella stasi, perché la vita procede anche quando si tenta di fermarla; la realtà, ignorandoci, compie il suo corso, e noi, rifiutando di decidere, lasciamo che siano altri a farlo, oppure consegniamo al caso la responsabilità del nostro orientamento. Si sedes non is non è un rimprovero; è un promemoria: restare seduti non sospende il divenire, semplicemente lo subiamo senza averlo convertito in cammino.

Fissare un obiettivo

La paura comincia a sciogliersi quando l’indeterminatezza si contrae in una figura, quando la forza diffusa viene raccolta in un punto che chiamiamo obiettivo.
Fissare un obiettivo significa, anzitutto, riconoscere la distanza tra ciò che si è e ciò a cui si tende; in quell’istante si accetta che il cambiamento non sia un eventuale costo da pagare lungo la strada, ma la sostanza stessa dello spostamento: se desidero un altro stato, dichiaro di essere pronto a diventare altro da me.
Non si tratta di proclamare una meta come se si trattasse di un’etichetta da applicare al futuro: l’obiettivo, per funzionare come forza che orienta, deve essere a sufficienza alto da resistere alle inevitabili torsioni del percorso, e a sufficienza concreto da non smarrirsi nella pura astrazione.
L’altezza non coincide con l’arroganza, bensì con la capacità di restare guida quando l’orizzonte si copre; la concretezza non coincide con il dettaglio operativo, bensì con la possibilità di tradursi in scelte quotidiane.
L’immagine è semplice e, proprio per questo, istruttiva: si vede in lontananza un edificio, lo si elegge a meta. Da quel momento, l’andatura non è più casuale; la scelta delle strade, dei tempi, delle soste comincia a obbedire a un criterio. Nel fissare l’obiettivo si inaugura la strada: lo spazio indifferente si converte in traiettoria, i passi si raccolgono in un ritmo, la paura perde parte del suo terreno perché non ha più a disposizione l’infinito delle alternative. L’obiettivo, in questo senso, è già un gesto di semplificazione: separa il possibile che nutre dal possibile che distrae.

Il cammino che trasforma

Una volta cominciata la strada, l’edificio lontano cambia aspetto. Lo si guarda da angolazioni diverse, talvolta scompare dietro una curva o un filare di alberi, riappare quando il terreno si apre, assume dimensioni inattese man mano che la distanza diminuisce. Lo stesso accade con l’obiettivo: la figura che avevamo proiettato all’inizio viene via via rettificata dall’esperienza, e queste rettifiche, lungi dall’essere tradimenti, sono il modo con cui la realtà collabora al compimento della direzione scelta. Nel frattempo, anche chi cammina cambia: il respiro si adegua al passo, la percezione dei dettagli si affina, le paure iniziali si stemperano non per magia ma per consuetudine, perché ciò che era ignoto diventa progressivamente familiare.
In questa reciprocità tra trasformazione dello sguardo e trasformazione del mondo, l’obiettivo opera come stella polare. Una stella non indica il sentiero metro per metro, non suggerisce dove mettere i piedi; offre una costanza nel cielo che, proprio mentre tutto muta, permette di non perdere il verso del cammino. Quando l’edificio scompare, non si smette per questo di sapere dov’è l’orizzonte; quando l’immagine iniziale si rivela parziale, non si rinuncia per questo al desiderio che l’ha generata. Il cammino non è la prova della fallibilità della meta, è la sua incarnazione nel tempo.
Tradurre tutto questo in pratiche è possibile e persino necessario, perché un’idea, se vuole radicarsi, deve trovare il suo gesto. Ci sono ritualità minime che sostengono lo sguardo nel suo compito: ritagliare, all’inizio della settimana, un momento per ripetere a voce l’obiettivo e selezionare le tre azioni che, nel concreto, lo avvicinano; chiudere la giornata riconoscendo due scelte che hanno tenuto la direzione e una che l’ha dispersa, non per colpevolizzare, bensì per rendere visibile la trama e imparare a correggerla; impostare un ritmo per le verifiche che non coincida con le urgenze del mondo, perché la contingenza non detti ogni volta le priorità. Il cammino chiede una disciplina mite, una forma di fedeltà che non si misura nell’eroismo della rinuncia ma nella continuità dei piccoli atti.

L’altezza della meta

Poiché la strada è complessa, piena di intersezioni e di curve cieche, l’obiettivo non può restare alla portata di una mano tesa; sarebbe troppo esposto agli scarti minimi, ai piccoli fallimenti che ogni giorno producono, inevitabilmente, microdeviazioni. L’obiettivo alto, quasi utopico, non chiede di essere afferrato una volta per tutte: chiede di essere guardato con perseveranza. La sua funzione è custodire il senso, non saturare il percorso con una promessa di arrivo immediato. Questo tipo di altezza non si confonde con l’eccesso d’idealizzazione, perché resta concreto nella misura in cui genera criteri: se la meta consiste in una forma di sapienza – nel significato più semplice del termine, la capacità di ordinare il vivere in modo giusto e fecondo – allora ogni scelta che incrementa lucidità, responsabilità e cura è coerente; ogni scelta che consuma attenzione, frammenta il giudizio e riduce l’altro a strumento allontana.
Come si riconosce, nel quotidiano, la qualità di un obiettivo alto? Alcuni indizi ricorrono: produce un incremento di libertà interiore invece di alimentare dipendenze; allarga la capacità di vedere il contesto, non si chiude in una vittoria tecnica; mantiene la relazione con gli altri dentro una logica di dignità reciproca, non la sacrifica a un risultato immediato; regge gli urti, perché non si fonda su un singolo scenario, ma attraversa scenari differenti conservando una struttura di senso. Un obiettivo di questa specie non si difende con la retorica, si riconosce nel modo in cui si vivono le relazioni, nella scelta delle priorità della vita, nella qualità delle rinunce, nella misura della pazienza.
L’altezza, inoltre, chiede un esercizio: sottrarre rumore, evitare che i dettagli urgenti occupino il posto del necessario, imparare a riconoscere la differenza tra attività e avanzamento. La giornata piena di movimento non coincide automaticamente con un passo verso la meta; spesso il pieno è il modo con cui si rimanda l’essenziale.

Ha ancora senso la paura del cambiamento?

La paura del cambiamento, letta da qui, non viene sconfitta da un atto di volontà generico, né dissolta da un ottimismo di superficie. Perde potere quando la direzione è stata scelta con serietà e resa operativa in pratiche che presidiano l’attenzione. Il passaggio non è drammatico, non ha bisogno di dichiarazioni solenni; accade in modo quasi impercettibile, perché la mente, ritrovando un orizzonte, smette di vagare e di montare scenari avversi, mentre il corpo, riconoscendo una ripetizione carica di senso, cede alla fiducia e produce il ritmo del cammino. Non è l’assenza di timori a segnare il cambio, bensì la loro riduzione a segnali di cautela dentro un movimento più grande, finalmente avviato.
Capita allora che, nel tirare le somme di un tratto percorso, si avverta una forma di entusiasmo sobrio: non euforia, non trionfo, piuttosto la riconoscenza per ciò che è diventato possibile a partire da una decisione, e per la misura di cambiamento che quella decisione ha portato senza tradire l’identità, anzi chiarendola. L’edificio che all’inizio sembrava lontanissimo è adesso a portata di mano, eppure appare diverso da come ce lo si era rappresentato; questo scarto non deprime, al contrario rassicura, perché conferma che la realtà ha collaborato al perfezionamento della figura, e noi, nel frattempo, siamo diventati capaci di vederla con più verità. Il nuovo, a quel punto, non è più un elemento estraneo che invade, ma il modo stesso in cui la fedeltà all’obiettivo prende vita.
Resta un compito, che non si esaurisce: prendersi cura della direzione, continuare a darle parole che la rendano riconoscibile, rinnovare le pratiche che la sorreggono, verificare periodicamente gli scarti non con spirito contabile ma con sguardo paziente, così da distinguere gli errori che chiedono correzione dalle deviazioni che, paradossalmente, hanno insegnato una via migliore. L’entusiasmo sobrio nasce da questo lavoro muto e continuo, dal contatto quotidiano con l’essenziale: scegliere, camminare, lasciarsi cambiare nella misura in cui il cambiamento avvicina, e non allontana, a ciò che si è scelto di volere.

Alla fine, l’adagio torna a dire ciò che serve: si sedes non is. Restare seduti prolunga la paura perché amplifica l’indifferenza del mondo davanti a noi; alzarsi e fissare un obiettivo inaugura la strada e, con essa, la trasformazione necessaria. La vita, nel suo modo discreto, fa il resto: mostra l’edificio, lo nasconde, lo ridisegna, lo consegna. E in quel consegnare, che raramente coincide con l’immagine iniziale, l’orizzonte alto si mostra per ciò che è sempre stato: una luce che orienta anche quando le nuvole la coprono, un compito che non pretende di essere concluso, una forma di sapienza che non si possiede e che tuttavia accompagna, come una mano ferma sul dorso della schiena, il gesto più semplice e più difficile: avanzare.

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