Una stazione qualunque della linea Circumflegrea, ore 15:20 di un normalissimo mercoledì.
Il treno, con le lamiere ricoperte di colorati tags, si ferma aspettando la coincidenza con il convoglio proveniente dal senso opposto. Tutto normale: viaggiatori assorti in parole incrociate o pendolari che ascoltano musica dagli auricolari, nessuno immagina che da lì a qualche secondo si sarebbero trovati spettatori e protagonisti di quella che poteva sembrare l’inizio di una rivolta popolare.
Inondato dalla luce del sole dell’estate di San Martino e nel più totale silenzio di chi sta ancora digerendo i resti del pranzo, un uomo, forse non avvezzo alle lunghe attese delle coincidenze dei treni Sepsa, chiede al macchinista tra quanto si sarebbe partiti.
Mai domanda fu più pericolosa: d’un tratto il macchinista, con fare sardonico ma evidentemente carico di stress, gli risponde alzando sempre di più il tono della voce che per quanto gli riguardava il treno sarebbe pure potuto non partire più dal momento che erano tre mesi che non veniva pagato, così come gli tutti gli altri lavoratori dell’azienda.
Attimi di stupore e meraviglia sulla banchina della stazione. C’è chi pensa a uno scherzo, chi invece, avendo letto le cronache locali, sa bene di cosa sta parlando l’infuriato ferroviere e annuisce, come per dire “vi capisco e vi sostengo”, c’è ancora chi non si è accorto di nulla perché intento ad ascoltare la musica dal suo lettore di mp3.
L’arringa del capotreno assume toni sempre più appassionati. L’uomo, accaldato e rubizzo, denuncia a gran voce il suo stato di lavoratore non pagato e minaccia l’azienda (guardando la sua personificazione nel treno pieno di gente) di smettere di lavorare fino a che non avesse avuto il suo meritato stipendio.
Aumenta la calca intorno a lui, tutti gli danno ragione, certo tutti hanno una meta da raggiungere, chi il lavoro, chi l’università, chi l’appuntamento con un amico, chi il meritato riposo a casa propria.
Tutti, tranne uno: “Prima o poi sarete pagati, di che vi lamentate, tornate a lavoro, sfaticati!”. Non l’avesse mai detto!
Il macchinista quasi gli si scaraventa addosso (quasi perché poi la sua professionalità lo ha fermato in tempo) e tutta la gente, che fino ad allora era intenta a “godersi” quello spettacolo inatteso di quotidiana disperazione, interviene in difesa del macchinista, e dei dipendenti Sepsa tutti, cominciando, chi urlando, chi borbottando, chi parlando al vicino sconosciuto e chi imprecando tutti i santi, i politici e i mariuoli, a srotolare la corona del rosario delle loro disgrazie, dei loro lavori sottopagati, della loro condizione di disoccupati, di lavoratori a nero, di lavoratori a cottimo, di lavoratori a tempo determinato.
C’è la ragazza, laureata in filosofia, che si inalbera, a giusta ragione, perché farà tardi alla sua postazione da centralinista di un call center.
C’è il giovane e brillante veterinario che vuole tornare a casa, ha fatto il turno notturno in una clinica dall’altra parte della città, diciotto ore e quaranta euro di paga.
C’è la donna che lavora in una azienda di pulizie, di quelle che si occupano, in subappalto dal pubblico, della manutenzione di ospedali e scuole. La donna racconta di aver pagato il suo posto ben trentamila euro, ha dovuto chiedere un finanziamento per pagare la mazzetta e guadagna mille euro scarsi al mese.
Quando poi parla il misterioso uomo barbuto, con le scarpe sporche e la fatica negli occhi, si sfiora la tragedia: l’uomo dice che sta tornando da uno scavo archeologico, che anche lui non è pagato da mesi e che vorrebbe che fossero stanziati finanziamenti per Pompei.
La folla inferocita gli si scaglia contro: “Qua la gente non mangia e voi volete i soldi per quattro pietre” tuona una donna in evidente stato di gravidanza e di stress. Le fanno coro, annuendo e confermando le sue tesi, un folto gruppo di persone. Poi alza la voce un signore canuto: “Partiamo su, che devo andare a parlare col datore di lavoro di mia figlia, quel bastardo l’ha licenziata perché è rimasta incinta!”.
Il signore conquista i favori delle rappresentanti di genere.
C’è poi un garbato trentenne che prende appunti, qualcuno gli chiede cosa sta facendo, “sono un giornalista, ovviamente precario, prendo appunti, vediamo se può uscirci un pezzo, potrebbero pure darmi dieci euro per un pezzo se devono riempire qualche colonna vuota”.
C’è il maghrebino, lui invece si defila dalla folla, col timore negli occhi che la calca possa attirare qualche esponente delle forze dell’ordine.
Sono passati dieci minuti, si sono creati capannelli di persone, più o meno arrabbiate. Da una parte si sentono denuncie contro “quei mariuoli che stanno al governo”, da un’altra è la camorra invece ad essere accusata di gestire i “posti di lavoro”, poi qua e là si sente: “monnezza”, “stipendi dei politici”, “non mi pagano”, “un pranzo a Montecitorio costa meno della mensa di mio figlio”, “ma voi avete visto la borsa?” . Parole di libertà e di rivolta echeggiano ovunque.
Ma a un certo punto un fischio. La luce di un faro. Un convoglio sta arrivando, ignaro di tutto, dalla parte opposta. Il macchinista risale sul treno. Si riparte.
La rivoluzione è rimandata alla prossima fermata.